LA
VOCE DEL SASSO
Un
mia carissima amica giapponese, eccelsa professinista
dell’animazione, teneva dei corsi di illustrazione
ordinando – non “chiedendo”: “ordinando” -
agli studenti di portare in classe un sasso. Un
ciottolo di fiume, un pezzo di marmo scheggiato,
un’amigdala… andava bene tutto. Dopodiché proponeva
di “guardarlo”, “ascoltarlo”, “capirlo”.
E intanto lei taceva. Anche per un’ora filata.
C’erano studenti che si scambiavano occhiate
perplesse, altri che ridacchiavano, altri che facevano
roteare l’indice attorno alla tempia. Ma,
dopo un po’, la più parte – con
l’esclusione dei cialtroni fisiologici in
ogni classe, probabilmente figli di frustrati del
genere descritto più avanti – cominciava
a recepire messaggi. Gli elaborati grafici derivanti
da “quello che aveva comunicato il sasso” erano – vi
assicuro – entusiasmanti. C’era chi
aveva visto del “morbido” in un ciottolo
arrotondato (disegnandolo come un peluche) e chi
del “rumore” in una pietra scheggiata
(rappresentato con scritte onomatopeiche stile
fumetto). E c’era anche chi faceva semplicemente
(semplicemente?) il “ritratto” del
sasso.
Cito spesso questo esempio, quando mi si chiede di parlare
di “creatività”, quella cosa misteriosa
che – al pari del famoso “dono del disegno” – viene
dai più considerata innata. Bugia, falsità,
mistificazione frutto di ignoranza, squallido tentativo
di autogiustificazione, deleterio messaggio, disinformazione
pericolosissima. La creatività è a portata
di tutti, il frutto di informazioni cumulate nel tempo
e elaborate in maniera anomala grazie a un catalizzatore
contingente. Nel caso, un banalissimo sasso. Nei bambini
la creatività è ricerca: la ridotta quantità di
informazioni in loro possesso è compensata dall’entusiasmo
del nuovo (e tutto è nuovo per loro) e così riescono
a elaborare soluzioni originali. Lo fanno con le parole
(a cosa serve il “calzino a vento” che garrisce
negli aeroporti?), con i giochi (quante cose può essere
uno scatolone di cartone?) e, naturalmente, con il disegno.
Questa creatività compensativa (ovvero finalizzata
a dare un senso alle cose sfruttando le poche conoscenze
a disposizione) entusiasma i grandi che si guardano bene
dal correggere o indirizzare, preoccupati di non “castrare” quelle
manifestazioni di fantasia. E così i piccoli continuano
a storpiare nomi, sfasciare scatoloni e disegnare scarabocchi.
Ma gli anni passano anche per loro e così, un
brutto giorno, l’ormai “ex bambino piccolo” scopre
che i suoi errori di linguaggio non fanno più ridere
per simpatia ma per dileggio, che gli scatoloni senza
ali e reattori non assomigliano poi tanto a delle astronavi,
che gli stessi scarabocchi tanto apprezzati dalla zia
solo un anno prima suscitano perplessità: “Ma
tu alla tua età sei ancora lì che disegni
così? Allora non c’hai il dono!” (notare
l’italiano inconsapevolmente creativo della zia,
please).
Il risultato, a questo punto, è esattamente quello
che – a parole – si voleva evitare: la “castrazione
creativa”. Infatti il mondo è pieno di adulti
creativamente impotenti.
Io
sono profondamente convinto – e mi prendo la
responsabilità di questa “immodesta proposta” – che
la soluzione sia semplice quanto faticosa. Bisogna seguire
costantemente l’evoluzione inarrestabile dei bambini
a noi affidati gratificando o puntualmente criticando
le loro manifestazioni creative. Bisogna fornire continuamente
stimoli catalizzatori della creatività, e controllare
che abbiano funzionato opure trovarne altri. Bisogna
tener conto dello scorrere “percentuale” del
tempo (non dimentichiamo che, per un bimbo di cinque
anni, dodici mesi corrispondono al 20% della sua vita,
sarebbe a dire l’equivalente – per un adulto
- del passaggio da cinquantenne a sessantenne). Bisogna
tenere sotto controllo le “fughe in avanti”,
intese come momenti egocentrici di onnipotenza forieri
di grandi delusioni, quanto le “stagnazioni”,
intese come momenti ripetitivi forieri di circoli viziosi.
Bisogna… bisogna inpegnarsi, faticare, lavorare,
dedicare tempo e cervello. Se vi par troppo, rendetevi
conto che facciamo del medesimo per insegnare la lingua
italiana, la matematica, la buona educazione. O, almeno,
dovremmo farlo.